Forse non essenzialmente io, ma io

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Bologna (itinerante), Bo, Italy
Nato a Taranto il 6 maggio nel segno del Toro. Il Giallo del collettivo Shingo Tamai, cialtrone poliedrico, dilettante eclettico, onnivoro relazionale, sempre in cerca di piaceri, di vezzi, di spunti e di guerre perse in partenza. L'idea di comparire in questi termini sulla rete è nata da un brainstorming con un amico, Leonardo Chiantini, qualunque fortuna possa avere il suo primo "quaderno di appunti" virtuale, è a lui che vanno i suoi ringraziamenti.
Benvenuti e buona lettura.
Ps. Aggiungetemi su Facebook e, con lo pseudonimo andrelebrogge, su Twitter

lunedì 28 novembre 2011

Soundmagazine.it - Intervista a unòrsominòre.


I gagliardi di Sound Magazine mi hanno chiesto di intervistare unòrsominòre e così ci siam messi di buona lena e questo è stato il risultato.

Cominciamo con le presentazioni che c’ho sto pallino dei nomi e mi piacerebbe capire il perché del tuo. Perché unòrsominore. tutto minuscolo, tutto attaccato e col punto finale?
Perché richiede impegno e attenzione, per disorientare un po’, perché è diverso dagli altri; o per lo meno lo era quando ho iniziato, cinque o sei anni fa. Non c’era questa invasione di bestie nell’indie italiano. Adesso con tutti i quadrupedi e i plantigradi in giro mi sa che cambio pseudonimo. Mi ricorda l’invasione di nomi di donna nella scena degli anni 2000. Bah, tutto passa.

Il tuo ultimo album “La vita agra” parla di questo presente. Cosa vedi?
Quello che vedo l’ho scritto e cantato: un paese stravolto, sconvolto, abbruttito nel suo intimo da decenni di corrosione della cultura, dello spirito critico, della tensione morale, e generazioni di padri e di figli distratti e superficiali e smemorati. Il 12 novembre scorso è cambiato qualcosa, è finita un’epoca ed è caduto un simbolo, ma l’epoca nuova di serenità e progresso è ben di là da venire. Le radici del disastro nel quale viviamo ormai da troppo tempo affondano nella storia di questa nazione. Questa liberazione, diversamente da quella del ’45, non porta con sé la voglia di ricominciare a ricostruire; siamo tutti stanchi, sfiduciati, non ci aspettiamo niente di nuovo. La mia generazione è cresciuta con l’imperativo categorico di rinunciare a credere, a sperare di cambiare qualcosa; “ci hanno preso tutto” e non vedo spiragli di sorta, nel futuro. La sinistra non esiste più da anni, l’Italia era e resta un paese di destra più o meno criptica, populista e ignorante, con o senza il tirannuccio in prima persona sullo scranno. E circa le nuove generazioni, direi che Manuel Agnelli la cantava giusta già una quindicina d’anni fa, e la situazione non è migliorata, anzi.
E il mondo discografico, invece, come ti appare?
Se parli del mondo indie, direi per lo più un mondicino piccino tutto teso a vivacchiare di cosine piccine; una piccola rete di amicizie e favori personali, esattamente come ogni altro settore. Per carità, esistono le eccezioni, ci mancherebbe. E comunque ovviamente io parlo solo per invidia. Del mondo major non posso parlare perché non lo conosco direttamente, ma mi pare che abbia sempre meno a che fare con la musica e sempre più con altre faccende. 
“Le parole sono importanti”, quanto lo sono per te e da quali letture o esperienze o modi di sentire nasce la tua poetica?
Lo sono assai, e mi piace pensare presuntuosamente che si intuisca nelle cose che scrivo e canto. Forma e sostanza non sono scindibili, “chi parla male pensa male e vive male” e chi scrive male difficilmente parla bene. Non è solo il godimento estetico di leggere e ascoltare costruzioni verbali piacevoli, c’è anche la necessità di essere chirurgici e spietati con le parole, per dire esattamente quello che va detto, per non lasciare spazio a formulazioni deboli – sia che si scelga di non essere ambigui, sia che si scelga di esserlo, il che è solo una questione stilistica. L’importante è avere coscienza di quello che si scrive e si dice. Letture: circa l’uso delle parole, direi Borges, su tutti; e poi Eco, Buzzati; Bulgakov. Ma metti anche Moretti, ovviamente, anche se non scrive romanzi.

Questo disco segna un’ulteriore crescita rispetto ai precedenti lavori, sia dal punto di vista degli arrangiamenti che delle tematiche proposte. Quando hai cominciato a scrivere “La vita agra” e come si sono sviluppati i pezzi?
Ho iniziato a scrivere le canzoni per questo disco molto tempo fa, un paio di anni almeno. E’ stato un processo lungo e complicato, non è il tipo di canzoni che sono sempre stato abituato a scrivere e quindi ho dovuto e voluto limare e sistemare ogni dettaglio. Poi cercare i suoni e le soluzioni musicali giuste per quelle parole è stato altrettanto difficile, e in questo ho ricevuto un enorme aiuto da Fabio. Ho cercato, sia nelle parole che nelle musiche, di evitare stereotipi di genere e cercare di non scadere in ovvietà. Non tutti sono convinti che ci sia riuscito, ma era preventivato. Alla fine, per aggiungere complicazioni alle complicazioni, ho deciso di registrare tutto da solo suonando tutti gli strumenti. E’ stato divertente.
Cinismo, rabbia, voglia di reagire, disillusione… Quali sono gli stati d’animo che hai riversato in questo disco?
Molta rabbia, sì, e molta disillusione, ma sempre cercando di filtrarle attraverso uno sguardo il più possibile razionale. Ho cercato di evitare sfoghi emotivi, anche quando urlo lo faccio con coscienza.
Il cinismo fa parte di me ma non credo si avverta troppo in queste canzoni, mi sa che tendo più a dare voce al mio idealismo romantico (per quanto pessimista) nella musica, per poi essere cinico e fastidioso nella vita di ogni giorno. Circa la voglia di reagire, in Celluloide sono abbastanza esplicito a riguardo: “Se cambiare qualcosa è impossibile, a cosa ci può servire la voglia di fare?”. La voglia magari c’è anche, è il metodo che manca.

Ci sono state altre possibilità musicali o precisi momenti in cui hai pensato di dover cercare nuove esperienze, oppure dal momento in cui hai aperto questa nuova parentesi artistica ogni ripensamento ha trovato soddisfazione in ciò che stavi riuscendo a creare?
No, hai voglia, decine di ripensamenti, continuamente. Ogni giorno, anche oggi. Sono un insicuro e non sono mai del tutto convinto delle mie scelte. Per questo lavoro poi, avendo deciso per scelta e per necessità di virare significativamente rispetto alle cose passate, i dubbi e le incertezze sono stati numerosissimi. Però posso dire che alla fine la soddisfazione è maggiore rispetto ad ogni altra mia esperienza passata in ambito musicale. Mi sembra di aver fatto, insieme e grazie a Fabio, il meglio che si potesse fare.

Ci sono musicisti o gruppi italiani che godono della tua manifesta stima?
Come no, e anzi grazie che me lo chiedi, così per una volta non sembro l’eterno insoddisfatto di tutto. Fra i cosiddetti indipendenti mi piacciono Il teatro degli orrori, Offlaga disco pax, Ministri, Non voglio che Clara. Meno noti ma bravissimi: Dilaila, Bancale, Misachenevica. Poi ci sono quelli veri, ma lì è un altro discorso, no? [sorride n.d.r.]

Quanto pesa una tua canzone e quale del tuo ultimo album senti ti appartenga di più?
Quanto pesa per chi? Per me parecchio, troppo probabilmente; per gli altri dipende, non saprei. Immagino non molto, altrimenti vivremmo in un paese migliore. Circa le canzoni, ce ne sono due o tre a cui sono molto legato: Celluloide, La vita agra II, Ci hanno preso tutto. Sono forse fra le meno immediate, e fra le più dirette, e cupe. Fosse stato solo per me forse il disco sarebbe stato tutto su quei toni, ma il mio produttore non ha voluto sentire ragioni e ha esatto il singolo ballabile.

Quali sono i tuoi programmi prossimi?
Suonare un po’ in giro, dove si riesce a farlo.
A presto, buon ascolto e buona lettura!

Ps. Ringrazio e non una volta sola, Valentina e SoundMagazine per l’opportunità!
Pps. Ringrazio FrizziFrizzi per la domanda sul peso dell’arte, su cui mi auguro non esista un copyright!

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