Autore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Anno 1958
Edizione: Feltrinelli editore
Pagine: 254
"Perché tutto rimanga com'è bisogna che tutto cambi"
Ci sono un discreto numero di buoni motivi per cui poter parlare di questo meraviglioso romanzo, dalle fortune postume (Elio Vittorini, che al tempo lavorava per conto dell'editore Einaudi, non volle pubblicarlo e solo dopo la morte di Tomasi grazie a Feltrinelli vide la luce della stampa), ma su tutti solo uno è quello veramente fondamentale, l'aver fatto il lettore di parti dell'opera collaborando con la Compagnia TenTeatro.
E proprio alla fine di questa tenzone semiteatrale, che si è chiusa ieri con la visione del film di Luchino Visconti (che devo ammettere, spero non bestemmiando troppo, mi ha impressionato molto meno del libro), ho pensato di scrivere delle brevi impressioni, su un romanzo che poco importa se non può essere considerato strettamente legato al filone "storico", resta una magnifica e appassionata dichiarazione di sofferente amore per la Sicilia, terra che a centocinquant'anni di distanza dall'unificazione d'Italia appare molto simile a quella riscontrabile in queste pagine.
Eccettuando quello posto su un ristrettissimo gruppo di personaggi (il Principe Salina, Tancredi, Padre Pirrone, e qualche altro), comunque tutti maschili, non è su loro che è posizionato l'occhio di bue dell'autore. La sapienza di Tomasi è tale, che nel Gattopardo è la mescolanza tra linguaggio, caratteri umani, eventi e luoghi a creare un elisir di elevatissima delicatezza letteraria e la sua attenzione è concentrata esattamente su questo connubio. L'ambiente e le persone che ne fanno parte sono un tutt'uno, tanto che l'uno risponde, in un modo che sembra quasi da interazione diretta, sempre agli stimoli dell'altro. Lo stesso Principe (che sembra in tutto e per tutto rappresentare l'autore all'interno dell'opera) in questo superbo monologo confonde, proprio per questo loro essere un tutt'uno, siciliani e Sicilia.
Leggerlo è un'esperienza fantastica, lo è ancora di più per la sofferente, rabbiosa e disarmante consapevolezza, che quella indolente ineluttabilità può avere il nome di Italia.
Buona lettura.
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