Non sempre è facile capire dal titolo dell'album o dal nome del gruppo in cosa ci si imbatterà, viviamo in tempi stantii quanto creativi e questo non fa che creare continuamente confusioni, almeno per chi non vuole profondersi in attenzione e restare sulla superficie delle cose. Poi però ti ritrovi tra le mani Let the poison out, l'ultimo lavoro dei
The Beets pubblicato dalla Hardly Art, il terzo per la precisione, e tutto quello che c'è da sapere è praticamente racchiuso tra titolo, copertina e nome della band.
Un disco disimpegnato che sembra venuto fuori dagli anni Sessanta del secolo scorso (e sappiate che mi fa una specie scriverlo da far spavento) e da cui trae la stessa verve, e poco importa se le tracce risultino spesso ripetitive dal punto di vista ritmico e un po' troppo brevi, rendendo per conseguenza complessivamente breve l'album, l'arma della semplicità e del richiamo al passato supera ogni eventuale considerabile qualità negativa. Funziona, fa venir voglia di ascoltarlo, di ri-ascoltarlo e semmai, come spesso accade con simili degustazioni, l'ascolto va solo accompagnato con cose da fare, possibilmente in compagnia, non dico necessariamente in una serata sballona, ma più l'atmosfera risulterà conviviale e accogliente, più ne verrà fuori un connubio appropriato, disinvolto, piacevole.
Questi ragazzi del Queens con questo disco nostalgico dall'aria pop-rock, s'arrischiano, muovendosi con più che eccellente capacità, nel terreno sconfinato delle armonie sognanti di quegli anni che crearono quella "... generazione di storpi permanenti, di cercatori falliti, che non ha mai capito la vecchia essenziale falsità mistica della cultura dell'acido. La disperata supposizione che qualcuno o almeno qualche forza, custodisse la Luce alla fine del Tunnel ...", come la descrive il personaggio di Raul Duke in Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Stockton Thompson.
Un disco disimpegnato che sembra venuto fuori dagli anni Sessanta del secolo scorso (e sappiate che mi fa una specie scriverlo da far spavento) e da cui trae la stessa verve, e poco importa se le tracce risultino spesso ripetitive dal punto di vista ritmico e un po' troppo brevi, rendendo per conseguenza complessivamente breve l'album, l'arma della semplicità e del richiamo al passato supera ogni eventuale considerabile qualità negativa. Funziona, fa venir voglia di ascoltarlo, di ri-ascoltarlo e semmai, come spesso accade con simili degustazioni, l'ascolto va solo accompagnato con cose da fare, possibilmente in compagnia, non dico necessariamente in una serata sballona, ma più l'atmosfera risulterà conviviale e accogliente, più ne verrà fuori un connubio appropriato, disinvolto, piacevole.
Questi ragazzi del Queens con questo disco nostalgico dall'aria pop-rock, s'arrischiano, muovendosi con più che eccellente capacità, nel terreno sconfinato delle armonie sognanti di quegli anni che crearono quella "... generazione di storpi permanenti, di cercatori falliti, che non ha mai capito la vecchia essenziale falsità mistica della cultura dell'acido. La disperata supposizione che qualcuno o almeno qualche forza, custodisse la Luce alla fine del Tunnel ...", come la descrive il personaggio di Raul Duke in Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Stockton Thompson.
Ascoltate i The Beets poi passate a raccontarmeli.
Dovremmo, vorremmo utilizzarla come colonna sonora per il nostro prossimo convivio pre-natalizio, a guardar crepe sui muri, gatti ciccioni, vicini sballoni, pipistrelli diurni.
RispondiEliminaAnche se poi so che metteremmo su zuccherosa roba natalizia ed andremo di sidro.
Io son sempre in pole position.
RispondiEliminaPiù o meno sempre allo stesso stato di sballosità...
... il che potrebbe essere tutto dire. ^^