Quando
è notte e si ascolta un disco, una delle cose migliori che ti può accadere è
che il suono abbia un che di ovattato, magari tratteggiato di tinte scure in
cui poter navigare come in una nebbia lattiginosa, lentamente.
Avevo lasciato questo gruppo marchigiano in
tre e li ho ritrovati in quattro con la voglia di mettere la voce di
Krishnamurti come intro e con un assetto musicale cambiato con l’aggiunta di
una chitarra. Praticamente, invece, non è cambiata la loro abitudine di
stordire con le linee di basso, di costruire testi per lo più brevi e intensi
che risuonano ossessivi fino a lasciarti la traccia del loro eco e infine di
pubblicare un Ep che duri meno di venti minuti.
Hope
and Faith, secondo album della band pesarese registrato
al Basement Studio di Manu Magnini, è un lavoro che conferma la maturità già
precedentemente mostrata e che pur distanziandosi appena dal suo “genitore”, con
maggior vigore traccia una linea musicale da seguire, nella cui pelle incarnare
letteralmente il progetto, un post-punk con iniezioni wave. Le prime quattro tracce del disco, aperte da Jk,
perfetta intro strumentale, sembrano quasi un'unica lunga traccia, con la
batteria a ritmare insistentemente la distorsione delle chitarre, l’armonizzare
del basso, la voce sciamanica di Michele Traglia e arrivano a discostarsi quasi
come una frattura, negli stridii, nelle nevrotiche distorsioni e
nell’apparizione di una special guests, Laura Casiraghi degli Starcontrol, del
quinto brano, Transition, chiusura di
un EP che spalanca un secondo mondo, fatto di contaminazioni elettriche più
profonde e marcate e di echi più contrastanti, un territorio che forse sarà il
prossimo da esplorare.
Per una seconda volta mi son piaciuti e per
una seconda volta li maledico per la loro brevità, ma forse è il loro tratto
distintivo quello di arrivare, sorprendere e tornare in un produttivo silenzio,
fino ai prossimi venti minuti.
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