Autore: Victor Hugo
Anno 1998
Edizione: Oscar classici
Pagine: 98
L'idea di scrivere un libro, che promuova pene alternative alla punizione capitale, non è facile da realizzare, nè per i nostri tempi particolarmente audace o avanguardistica, benchè esistano stati in cui ancora vengano addebitate simili barbarie con troppo faciloneria.
Questa breve introduzione perde parzialmente il suo significato, di fronte al fatto che l'autorevole autore, Victor Hugo, vivesse in tutt'altro periodo, quello in cui l'idea di amministrazione della giustizia attraverso la pena di morte, sotto forma di ghigliottina, faceva, non solo metaforicamente, perdere la testa ai più.
La forza di questo scritto, che ricalca, in forma di romanzo autobiografico (dove protagonisti sono il condannato a morte e i suoi ultimi giorni di detenzione prima della decapitazione), le argomentazioni affrontate da Cesare Beccaria nel suo "Dei delitti e delle pene", è nella scelta personalissima e poco editorialmente popolare (almeno stando alla nota conclusiva del romanzo, scritta da Adèle Hugo) di lasciare anonimo il protagonista, che coinvolge, in questo suo anonimato di uomo senza volto, tutti gli uomini che come lui avrebbero (o avevano già) subito la punizione estrema, perdendo davvero il loro volto e con esso, l'individuale identità umana.
Uno scritto, questo, tanto più attuale, per il suo porre crudamente la natura stessa della non-vita di una persona condannata ad attendere il giorno, l'ora, il minuto stesso, della sua morte.
Una lezione, questa, che nei tempi passati poteva essere appresa osservando l'uomo che dal palco offriva il suo "moncone acefalo" alla folla e che oggi, in troppi, vorrebbero ignorantemente (nel senso più greco "di non conoscenza" possibile) riproporre.
Buona lettura.
Questa breve introduzione perde parzialmente il suo significato, di fronte al fatto che l'autorevole autore, Victor Hugo, vivesse in tutt'altro periodo, quello in cui l'idea di amministrazione della giustizia attraverso la pena di morte, sotto forma di ghigliottina, faceva, non solo metaforicamente, perdere la testa ai più.
La forza di questo scritto, che ricalca, in forma di romanzo autobiografico (dove protagonisti sono il condannato a morte e i suoi ultimi giorni di detenzione prima della decapitazione), le argomentazioni affrontate da Cesare Beccaria nel suo "Dei delitti e delle pene", è nella scelta personalissima e poco editorialmente popolare (almeno stando alla nota conclusiva del romanzo, scritta da Adèle Hugo) di lasciare anonimo il protagonista, che coinvolge, in questo suo anonimato di uomo senza volto, tutti gli uomini che come lui avrebbero (o avevano già) subito la punizione estrema, perdendo davvero il loro volto e con esso, l'individuale identità umana.
Uno scritto, questo, tanto più attuale, per il suo porre crudamente la natura stessa della non-vita di una persona condannata ad attendere il giorno, l'ora, il minuto stesso, della sua morte.
Una lezione, questa, che nei tempi passati poteva essere appresa osservando l'uomo che dal palco offriva il suo "moncone acefalo" alla folla e che oggi, in troppi, vorrebbero ignorantemente (nel senso più greco "di non conoscenza" possibile) riproporre.
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